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Gioiose Apocalissi

Galleria del Teatro, Castel San Giovanni, Piacenza, 2014

 

A cura di Roberto Borghi

 

 

 

Parafrasando un libro cruciale di Filiberto Menna[1] si potrebbe parlare di una linea apocalittica dell’arte moderna che ha il suo fulcro nell’informale. Pressoché in tutto l’informale: cioè non soltanto in quello più vistosamente impregnato di angosce postatomiche. Persino la riflessione sugli Ultimi naturalisti[2] di Francesco Arcangeli ha come premessa che «il nostro occhio è inquietato dalle dimensioni moltiplicate, dalle ipotesi nucleari; è inquietato mentre guarda, mentre sogna, mentre ricorda».

Se rievoco le parole che il critico bolognese scriveva nel 1954 è perché quello sforzo di «ritentare la natura» («la natura traboccante, inquieta, eppure ancora terribilmente amorosa» la cui «proporzione sfugge alla misura intellettuale») coinvolge anche l’intero percorso espressivo di Primo Sanguini. Nel 1954 Sanguini si è ormai liberato da ogni tentazione realistica e ha coniato un suo linguaggio astratto, nel quale a malapena si intravede «qualche ombra di figura, solo se ombra …, larve umane che si cercano brancolando cieche e amorose nel magma dorato dei colori» (sono ancora parole di Arcangeli). La natura per lui è, ancor prima che vegetazione, acqua: sotto forma di mare, di pioggia, di nuvola, ma pur sempre acqua. Questa materia idrica, di cui la pittura esalta al massimo grado la tattilità, nel corso dei decenni viene sottoposta a un processo di graduale dissolvenza. Accade così che la prominenza del colore, steso sulla tela perlopiù con le mani o con piccoli pezzi di cartone, non cessi di essere rilevante, ma allo stesso tempo evochi un senso di disfacimento, di disintegrazione, talvolta con i toni solenni di un’apocalisse. Però di un’apocalisse gioiosa, nella quale l’occhio è sì «inquietato», ma «il sogno, il ricordo» che lo agitano hanno un tono fausto, e talvolta persino entusiasta.

Certo, nelle opere di Sanguini non mancano i momenti di oscurità, o le situazioni intuitivamente tragiche, che sembrano generate da vortici, implosioni, alluvioni. Ma l’andamento della pittura di questo artista fecondo, il cui itinerario creativo si svolge tra gli anni Quaranta e i Novanta, va verso un lirismo appagato, e allo stesso tempo verso un grado sempre maggiore di astrazione.

Oltre che da affioramenti sempre più delicati e bagliori più intensi, i dipinti dell’ultimo decennio sono caratterizzati da flussi e moti centrifughi che forse esprimono un desiderio sempre più percettibile di sporgersi verso l’osservatore.  Per quanto «sproporzionata», «traboccante» e «sfuggente alla misura intellettuale», la natura dipinta da Sanguini non cessa insomma di squadernarsi, di manifestarsi sulla tela attraverso un’apocalisse che, come prescrive il significato etimologico del termine, non è altro che una rivelazione.

 

Roberto Borghi             

 

 

 

[1] Filiberto Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Einaudi, Torino 1975.

 

[2] Francesco Arcangeli, Gli ultimi naturalisti in «Paragone», n. 59, Firenze, novembre 1954, pp. 29-43.

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